Le tre parole chiave del successo: le persone, le persone e... le persone

ott 14, 2020 | scritto da:

Un giorno lessi di un vecchio proverbio cinese che invitava coloro che sono preoccupati per il prossimo anno a seminare grano, mentre coloro che si preoccupano per i prossimi cento anni a educare le persone. Come molti proverbi popolari, anche questo nasconde una sua saggezza: in un mondo in continuo cambiamento, in cui non possiamo sapere con certezza cosa accadrà un domani, investire sulle persone più che sulle risorse materiali è la cosa più saggia che possiamo fare. Perché le persone cambiano. Le risorse invece no.

Per comprendere meglio l’importanza di investire sulle persone, attraversiamo tutta l’Asia e spostiamoci dalla Cina alla Finlandia. Per buona parte del Novecento la Finlandia è stato uno dei paesi più poveri d’Europa, con un’economica poco industrializzata e legata principalmente all’agricoltura. Oggi invece, la Finlandia è uno degli stati più ricchi del mondo, con il miglior sistema educativo in Europa e la più alta qualità della vita. Tanto che nel 2010, la rivista Newsweek ha indicato la Finlandia come il miglior stato del mondo.

Come è stato possibile questo cambiamento così radicale e così veloce? La risposta è semplice: hanno puntato sulle persone. In un’intervista uscita sul magazine Monocle, Juha Leppanen, direttore del think-tank Demos a Helsinki, disse che l’unica soluzione per un paese come il loro, molto lontano e con un clima terribile, era focalizzarsi sulle persone.

Ecco svelato il segreto dello sviluppo economico della Finlandia. Non avevano nulla e così hanno investito sulla loro risorsa più importante, le persone. Le stesse persone che sono poi state capaci di trasformare il proprio paese. L'esempio della Finlandia è la dimostrazione che nulla, all’infuori delle persone, è in grado di guidare il cambiamento. Perché le macchine diventano obsolete. I soldi si svalutano. Gli immobili si rovinano. Le persone invece si adattano e possono creare valore anche dove nessuno lo vede.

Adesso facciamo ancora qualche chilometro per spostarci più a sud, dalla Finlandia all’Italia. C’è un sito internet molto utile che mi capita spesso di consultare, il REDI. REDI è un acronimo per Regional Entrepreneurship and Development Index, ovvero l’indice di sviluppo regionale ed imprenditoriale redatto dalla London School of Economics And Political Science.

All’interno del sito è possibile comparare diverse regioni d’Europa in base a quattordici variabili: Competizione, Supporto Culturale, Finanziamenti, Crescita, Internazionalizzazione, Opportunità Percepita, Opportunità per le StartUp, Innovazione di Processo, Innovazione di Prodotto, Accettazione del Rischio, Startup Skills, Tecnologia, Capitale Umano e Networking.

Se prendiamo in analisi queste ultime due variabili, Capitale Umano e Networking, e compariamo l’area Nord-Est d’Italia con l’area metropolitana di Londra nel Regno Unito, notiamo subito come su alcune variabili (per esempio il finanziamento o l’innovazione di prodotto) non ci sia molta distanza, mentre i due punti sensibilmente più critici per l’Italia siano proprio il Capitale Umano e il Networking.

E questo penso sia il nocciolo del problema economico del nostro paese. In Italia mancano i talenti, non perché non ci siano, ma perché non vengono coltivati e valorizzati, e quindi abbandonano il nostro paese.

Negli ultimi dieci anni il numero di italiani che si sono trasferiti all’estero è triplicato. Dal 2018, c’è stato un aumento del 16,1% dei cittadini italiani che si sono cancellati dall’anagrafe perché sono andati a vivere all’estero. Qualsiasi riforma e qualsiasi discussione sul tema del lavoro e dell’impresa in Italia, dovrebbe, a mio avviso, partire da questo punto: come valorizzare le persone. Come creare un ecosistema che permetta alle persone di lavorare al meglio e realizzare il proprio talento attraverso il lavoro. Perché l’innovazione, tanto in un paese quanto in un’azienda, passa dalle persone.

Per rimanere all’interno delle HR ma passando dal pubblico al privato, pensiamo a una delle aziende più dinamiche e innovative del Novecento, la Virgin. Nata nel 1972 come etichetta discografica, in quarant’anni la Virgin è riuscita a re-inventarsi di continuo entrando (e talvolta uscendo) da settori e mercati tra loro anche molto distanti. Da quello bancario alle bevande, passando per le compagnie aeree, il trasporto via treno, i video games, l’elettronica di consumo, i servizi finanziari, i film, Internet e mobile, la radio, i libri, l’affitto auto e moto, il turismo, lo sport, i cosmetici, il retail e i viaggi nello spazio.

Quando un giornalista chiese al fondatore della Virgin, Sir Richard Branson, di spiegare il suo successo in tre parole, l’imprenditore britannico, senza pensarci molto, rispose: «Le persone, le persone e… le persone». Penso che qualsiasi imprenditore sarebbe d’accordo con lui. Le persone sono l’asset più importante per qualsiasi azienda. Tanto da un punto di vista strategico, quanto da un punto di vista competitivo. E più andiamo verso un futuro fatto di tecnologia e automazione, e più sarà importante investire sulle persone. Perché il nostro vantaggio competitivo dipenderà dalle persone che saremo in grado di coinvolgere nella nostra azienda. 

Molta della tecnologia di cui disponiamo oggi sta diventando una commodity. Qualcosa che si trova sul mercato a prezzi sempre più contenuti. Possiamo creare App senza saper programmare, acquistare piattaforme per poche migliaia di euro e utilizzare Software as a service senza dover fare investimenti eccessivi.

Oggi ci preoccupiamo molto delle possibili conseguenze della diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Di cosa potrebbe accadere se un domani una macchina potesse pensare come un essere umano. È una preoccupazione fondata. Tuttavia, la mia più grande paura non è che la macchina inizi a pensare come l’uomo, ma che l’uomo inizi a pensare come la macchina, e quindi smetta di pensare.

La nostra capacità (come persone) di risolvere problemi, di prendere decisioni in situazioni complicate e non prevedibili e di disegnare piani di sviluppo, ha molto più valore di competenze puramente meccaniche come l’elaborazione di dati. Riprendendo le parole dell’imprenditore e informatico statunitense Marc Andressen, sia come persone che come aziende, dovremo decidere da che parte stare: tra quelli che diranno ai computer cosa fare o tra quelli a cui i computer diranno cosa fare. E in questa decisione le persone che compongono la nostra azienda avranno un ruolo primario.

Ma come costruire un ecosistema che non solo attragga talenti, ma riesca a mantenerli e farli crescere? Ovviamente non c’è una risposta universale. La letteratura e la rete sono ricche di spunti e teorie, più o meno accreditate.

C’è però un tratto comune a tutte le aziende che sono riuscite a crescere e innovare grazie al proprio team: fanno sentire le persone importanti.

Mettono le persone nella condizione di poter valorizzare il proprio talento attraverso il proprio lavoro.
Molti anni prima di fondare Syco Entertainment, con cui ha ideato e prodotto format televisivi come The X-Factor e Got Talent, l’imprenditore britannico Simon Cowell chiese a suo padre come gestire un’azienda e suo padre rispose: «È molto semplice, tutti hanno un cartello in fronte con scritto: “Fammi sentire importante”». In queste poche parole c’è molto di quello che servirebbe sapere per lavorare (bene) con le persone. Farle sentire importanti. O, ancora meglio, farle sentire una parte importante di qualcosa di importante.

Tutti hanno bisogno di sentirsi gratificati e realizzati. È ciò che Freud chiama “il desiderio di essere grandi” o il filosofo americano Dewey chiama “il desiderio di essere importanti”.

Far sentire una persona importante vuol dire avere il coraggio e la capacità di delegare.
Vuol dire non limitarsi a dire cosa fare, ma condividere anche perché farlo. Vuol dire sperimentare e mettere le persone nella condizione di imparare dai propri errori.
Vuol dire costruire una cultura aziendale.

E vuol dire, infine, dialogare con le persone, ovvero saper ascoltare, e non solo parlare.
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