Da una parte ci sono i proclami in vista della COP26 e tutti si dichiarano pronti a grandi imprese. Blablabla. Perché dall’altra ci sono i piani di produzione di combustibili fossili per i prossimi anni, in aumento, e i sussidi che gli stati pagano per tenere bassi i loro prezzi. Se queste sono le premesse perché stupirsi se la COP26 sarà un insuccesso?
Nella mia carriera di giornalista ho avuto modo di occuparmi con attenzione delle trattative in sede WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) del cosiddetto Doha Round. Iniziate nel 2001, quelle trattative dovevano stabilire le nuove regole condivise in materia di commercio globale delle merci e regolare anche alcuni temi decisivi come l’erogazione di sussidi agricoli e alla produzione di risorse alimentari. Protagonisti di quelle trattative erano gli stati membri.
A quei tempi i cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) erano paesi emergenti e avevano come principale richiesta quella di non subire i danni di barriere doganali per l’esportazione dei propri prodotti e, in seconda battuta, quella di spingere Unione Europea e Stati Uniti a ridurre la quantità di sussidi - considerati distorcenti per una leale concorrenza - versati al proprio settore agroalimentare. Dall’altra parte proprio UE e USA chiedevano ai BRIC di evitare di fare dumping ed invadere con prodotti a basso costo i propri mercati, con grave danno per le proprie imprese interne.
Il risultato di questo confronto fu lo stallo. Le trattative del Doha Round si sono arenate nel 2014 con un nulla di fatto e da allora non se n’è più saputo niente, mentre il mondo del commercio globale andava strutturandosi in maniera sostanzialmente anarchica, con accordi bilaterali fra singoli stati o al massimo con alleanze di carattere regionale.
La lezione imparata allora è che nonostante a parole tutti fossero disponibili ad uno sforzo per raggiungere l’obiettivo di un accordo condiviso, in realtà ciascuno badava a difendere solo e soltanto i propri interessi.La struttura di quel sistema di trattative è simile, nei suoi aspetti fondamentali, a quella della COP a cui s’affida la speranza di definire strategie di reale contenimento delle emissioni e di lotta al cambiamento climatico.
Una struttura che invita tutti a fare grandi proclami pubblici, nel mentre che silenziosamente lottano per salvaguardare quelli che ritengono legittimi interessi nazionali. Con Cina e India che non vogliono rinunciare alla crescita delle loro economie, alimentata dai combustibili fossili, e che rinfacciano ad economie più mature come quelle occidentali, di avere inquinato per molto più tempo senza nessuno che avesse a chiedere loro conto.
Questo è il primo motivo per non essere ottimisti in merito a quanto di concreto potrà realizzarsi con la COP26.
Mentre i paesi fissano obiettivi di zero emissioni nette e aumentano le loro ambizioni climatiche nell'ambito dell'accordo di Parigi, non hanno tuttavia esplicitamente riconosciuto o pianificato la riduzione della produzione di combustibili fossili che questi obiettivi richiederanno. Al contrario, pianificano di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili che sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento globale ad un aumento di 1,5°C.
A rivelarlo è l'ultimo Production Gap Report - realizzato per la prima volta nel 2019 - che traccia la discrepanza tra la produzione di combustibili fossili pianificata dai governi di 15 grandi paesi e i livelli di produzione globale coerenti con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C o 2°C.
I paesi presi in considerazione dalla ricerca - tra cui gli Stati Uniti, l'India e la Cina - stanno progettando un aumento della produzione globale di petrolio e gas, e solo una modesta diminuzione della produzione di carbone, nei prossimi due decenni. In questo modo produrranno il doppio del petrolio, del gas e del carbone (fino al 2030) rispetto a quanto sarebbe necessario per mantenere il riscaldamento globale sotto alla soglia di 1,5°C; un limite ampiamente accettato se il mondo vuole evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico.
Se da un lato si dichiarano grandi prese di posizione contro il cambiamento climatico, dall’altro, in concreto, ci si prepara a fare ben altro.
Ma c’è un altro aspetto da considerare e riguarda la finanza. I sussidi ai combustibili fossili sono infatti una delle maggiori barriere finanziarie che ostacolano il passaggio alle fonti di energia rinnovabili. Ogni anno, i governi di tutto il mondo versano circa mezzo trilione di dollari per abbassare artificialmente il prezzo dei combustibili fossili - più del triplo di quanto ricevono le energie rinnovabili. Questo nonostante le ripetute promesse dei politici di porre fine a questo tipo di sostegno, comprese le dichiarazioni dei gruppi di nazioni G7 e G20.
Uno studio del GSI - Global Subsidies Initiative (sostenuto dall’International Institute for Sustainable Development) spiega bene come non sia facile - nella pratica - procedere ad una rimozione di questi sussidi. Innanzitutto perché individuarli non è facile, c’è infatti il problema delle definizioni. I paesi del G7 e del G20 hanno promesso di eliminare "i sussidi inefficienti ai combustibili fossili", anche se non hanno definito chiaramente cosa significa questa frase e lasciato grande ambiguità su quella parola: "inefficienti".
Si arriva in questo modo al paradosso per cui alcuni paesi ritengono di non avere alcun sussidio da eliminare. Il governo del Regno Unito, per esempio, dice di non averne, anche se l'IISD calcola che ha speso 16 miliardi di dollari all'anno per sostenere i combustibili fossili tra il 2017-19. In gran parte, questo è dovuto al fatto che il Regno Unito rinuncia ad alcune entrate fiscali derivanti dall'uso di combustibili fossili e finanzia direttamente la sua industria del petrolio e del gas.
"Rifiutano l'idea che stiano erogando sovvenzioni inefficienti per i combustibili fossili", dice Angela Picciariello, responsabile senior della ricerca sul clima e la sostenibilità presso l'Overseas Development Institute di Londra. Quindi "è abbastanza difficile impegnarsi con loro su questo". Inoltre, ogni nazione ha le proprie ragioni per sovvenzionare i combustibili fossili, spesso legate alle proprie politiche industriali.
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