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Gli alberi che videro la fine del mondo (e continuarono a crescere)

Scritto da Tommaso Ciuffoletti | Aug 7, 2025 7:46:08 AM

Nel giorno degli 80 anni da Hiroshima, una storia di silenziosa resistenza e tenace rinascita

Il 6 agosto 1945, alle 8:15 del mattino, Hiroshima smise di essere una città come le altre. In una manciata di secondi, la prima bomba atomica mai usata in guerra rase al suolo la vita come si era sempre conosciuta: 70.000 persone morirono sul colpo, decine di migliaia nei giorni e negli anni successivi, e la città divenne un simbolo tragico e irripetibile della distruzione umana.

Eppure, tra le macerie annerite, nel raggio mortale di due chilometri dall’epicentro, qualcosa rimase in piedi. Alcuni alberi, piegati, bruciati, mutilati, non morirono. Contro ogni aspettativa, nei mesi successivi alla catastrofe, cominciarono a germogliare di nuovo. Piccoli segni verdi, silenziosi e testardi, spuntarono da tronchi devastati: erano i hibakujumoku, gli “alberi bombardati”.

Oggi se ne contano 170 ancora vivi a Hiroshima, appartenenti a 32 specie diverse. Ognuno è schedato, identificato da una targa in giapponese, inglese e latino. Sono diventati un patrimonio vivente della città, un archivio verde della memoria. Crescono accanto a scuole, templi, giardini pubblici. Sono lì a ricordare — senza parlare — ciò che è successo, e ciò che può accadere di nuovo se la memoria viene meno.

La vita che non si arrende

Alcuni sono alberi comuni, per nulla monumentali: un salice, una canfora, un kaki. Ma proprio nella loro normalità si nasconde qualcosa di straordinario. Quegli hibakujumoku non hanno solo “resistito”: hanno scelto la vita, pur dentro la più assoluta desolazione. Il loro verde ha fatto breccia tra le ceneri radioattive, portando un messaggio che nessun discorso politico avrebbe potuto esprimere con la stessa potenza: la vita può rinascere, anche dopo l’inimmaginabile.

Il botanico giapponese Tamiki Tsukamoto fu uno dei primi a censirli. Negli anni ‘70, attraversò Hiroshima con una semplice cartina e una convinzione: che raccontare la storia degli alberi fosse un modo diverso — e forse più empatico — per raccontare la tragedia della bomba. La sua lista divenne la base per quella ufficiale oggi mantenuta dalla città. Ogni hibakujumoku porta con sé una storia di resilienza, ma anche una domanda aperta: cosa significa sopravvivere?

Il significato di questi alberi non si esaurisce nella retorica della speranza. Gli hibakujumoku sono testimoni. In occasione dell’80° anniversario di Hiroshima, la loro presenza è più eloquente che mai. In un mondo ancora lacerato da guerre, diseguaglianze e crisi climatiche, questi alberi ci interrogano. Non con le parole, ma con la semplice esistenza. Cosa vogliamo farne della nostra memoria? E soprattutto: cosa vogliamo fare del nostro futuro?

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Oggi più che mai piantare un albero può essere un atto radicale. Non di protesta, ma di fiducia. Un gesto lento, silenzioso, che guarda al futuro. Ogni albero piantato è un segno che scegliamo di stare dalla parte della vita, anche quando sembra più fragile. Anche quando costa fatica.

Gli hibakujumoku ci ricordano che un albero può essere molto più di un albero. Può diventare rifugio, memoria, gesto di cura. E anche promessa. La promessa che qualcosa continuerà a crescere, se saremo capaci di custodirlo.

A volte ci si chiede cosa possiamo fare, concretamente, per un mondo più giusto, più sano, più pacifico. Forse, cominciare da un albero è una risposta possibile.